Al mio posto? C'era un'altra!
Altra storia, altro dolore. A scrivermi è una lavoratrice sarda che ringrazio a nome di tutti i frequentatori di questo blog. Denunciare fenomeni riconducibili al mobbing è un dovere e un diritto. E' importante soprattutto dare ad altri la speranza che è possibile affidarsi alla magistratura, così come è possibile avviare concrete forme di solidarietà con i colleghi con l'obiettivo di promuovere una sana cultura negli ambienti lavorativi.
Caro Carlo,
grazie ancora per l'interessamento, ne avevo proprio bisogno! Avevo già pensato di scriverti direttamente prima di pubblicare qualcosa in bacheca e raccontarti, in breve, la mia storia rispondendo, in sostanza, proprio alle domande del tuo test.
Cercherò di essere sintetica... spero!
Sono nata in un paesino in provincia di Cagliari e, in questa città, ho studiato conseguendo la maturità classica nel 1983. In seguito mi sono iscritta in giurisprudenza, ma ho dovuto abbandonare gli studi perché - a soli 20 anni - ho perso mio padre per un tumore (aveva 49 anni!); così ho iniziato prima ad aiutare, e poi a sostituire, mia madre nella gestione del nostro negozio di generi alimentari permettendo a mio fratello e a mia sorella (più piccoli di me) di terminare le superiori.
Grazie anche a un corso di dattilografia fatto nel frattempo, nel 1987 vengo assunta come impiegata in una grossa azienda operante nel settore metalmeccanico […]. Dopo un breve periodo in cui mi sono occupata di segreteria, fin da subito vado ad affiancare l'unica collega che si occupava del personale e, così, imparo tutto ciò che concerne quel settore […].
In breve tempo riesco ad acquisire tanta consapevolezza e professionalità da finire per gestire autonomamente con la mia collega (consulente del lavoro con la qualifica di impiegata amm.va 7^ liv. il più alto nel ccnl metalmecc.) l'ufficio del Personale.
Nonostante responsabilità di un certo tipo, tanto lavoro (l'azienda ha centinaia di dipendenti), rapporti non sempre sereni con i sindacati (perché io sono sempre stata dalla parte dell'azienda), riusciamo a organizzarci talmente bene con [la mia collega], che oramai anche il capo ci dà massima fiducia e libertà anche nelle pratiche più delicate... anzi lui è orgoglioso e molto contento di noi due, forse anche un po’ di più rispetto alle altre due colleghe che si occupano di contabilità, meno indipendenti e divenute anche loro mie carissime amiche. Oltre loro due ci sono anche una segretaria e dei colleghi maschi che collaborano col titolare […].
A giugno 2007, la moglie del capo, dopo forse 3 anni che non veniva in ufficio, si presenta di punto in bianco e va a salutare e parlare con tutte le mie colleghe eccetto me. Mentre va via io la richiamo indietro salutandola, ma la reazione di questa donna è spaventosa: mi risponde urlando e aggredendomi verbalmente davanti a tutti con termini poco piacevoli e alla mia richiesta di spiegazioni, invitandola alla calma, esagera ancora di più minacciandomi di licenziamento e invitandomi sgarbatamente a dare le dimissioni.
Puoi immaginare la mia vergogna e il mio stato d'animo. Il capo non c'era e quindi ne parlo con lui il giorno dopo... mi risponde che sapeva tutto e mi invita a stare serena, la moglie sta attraversando un periodo critico, uno dei tanti, e mi consiglia di continuare a lavorare come ho sempre fatto perché l'azienda ha bisogno di me.
Ciò mi rasserena ma dopo un paio di giorni spariscono dalla mia scrivania oggetti personali. Intuisco ma lascio perdere. Nel frattempo, iniziano le numerose visite in ufficio da parte della figlia ventenne, con la quale ho avuto sempre un ottimo rapporto, e che, entra salutando per nome solo la collega e, dandomi le spalle fisicamente, rivolge la parola solo a lei. Poi al rientro dalle ferie in agosto di nuovo non trovo più altri oggetti personali, compreso l'attestato di un corso di aggiornamento.
Anche il capo cambia tantissimo nei miei confronti: non mi rivolge più la parola e se lo fa è con arroganza, quasi non mi saluta e, se ha necessità di qualcosa, si rivolge solo a Sabrina. Io sono insofferente, mi dispiace tanto, anche per il forte affiatamento nei suoi confronti, sto male ma faccio finta di nulla, anzi, grazie ai consigli e all'affetto di mio marito paradossalmente questa situazione inizia a irritarmi talmente tanto che mi do ancora più da fare lavorando come non mai (nel frattempo con mio marito facciamo una chiacchierata anche con un ispettore del lavoro che mi dice di continuare così).
E' evidente che questa mia inaspettata reazione irrita anche il capo […]. Il 26 marzo 2008, dopo un'intera giornata di lavoro, il capo mi chiama nel suo ufficio (10 minuti prima che uscissi) per dirmi, con aria bonaria e paterna, che, a causa di problemi familiari, io dal giorno successivo non mi sarei dovuta presentare a lavoro, ma giusto il tempo di qualche mese perché poi mi avrebbe richiamata, anche se nel frattempo mi suggeriva di trovare un altro lavoro. Non avrei avuto però alcun problema perché mi avrebbe pagato lo stipendio ugualmente segnandomi le 8 ore in giornaliera. Io stordita e incredula gli rispondo che è un'ingiustizia, che io voglio lavorare. Ma lui mi risponde di stare tranquilla promettendomi e ribadendo che mi avrebbe continuato a dare lo stipendio senza lavorare fino a quando non ne avessi trovato un altro. Tra pianti e disperazione racconto tutto a mio marito che più lucidamente mi dice che di sicuro mi vuole incastrare e, poiché sono stata molto male durante la notte, l'indomani vado dalla mia dottoressa, alla quale racconto tutto, e mi da tre giorni di malattia.
Pensa che quando mio marito si presenta in ufficio per consegnare il certificato, dopo due giorni, nella mia scrivania, nel mio ufficio, in mezzo alle mie cose C'ERA UN'ALTRA RAGAZZA che prendeva il mio posto!
Vado subito da questa mia amica avvocato ed è stata lei ad indicarmi una psicologa/psichiatra a cui rivolgermi e che ha riscontrato fin da subito il mio grave stato ansioso e depressivo.
Dopo qualche mese di malattia, volendo tornare al lavoro, l'avvocato mi asseconda suggerendomi di telefonare e parlare col capo che, invece, mi ribadisce la stessa cosa. La telefonata viene ascoltata anche dall'avvocato. Io ancora più depressa e, dopo alcuni mesi sempre in malattia, dico all'avv. che voglio chiudere la vicenda dando le dimissioni, anche per una mia liberazione mentale. Mi viene sconsigliato, mi dice di tenere duro e di continuare la malattia fino ad un anno, visto che stavo ancora male. Riesce a convincermi e, dopo un anno, contro la mia volontà, perché debole e non convinta di farcela, mi convince anche a tornare in ufficio!
Accade che, prima mando un telegramma spiegando che, essendo terminato il periodo di malattia, mi sarei presentata sul posto di lavoro il 26 marzo 2009. Non avendo il tempo materiale per rispondere, mi presento in ufficio con gli avvocati... non puoi immaginare il disagio e imbarazzo dei colleghi (non ti ho detto che mi hanno abbandonato tutti eccetto una sola persona... altro colpo mortale!), il capo non si è fatto vedere per niente ma a mezzo [di una collega] mi comunica tramite lettera di essere in ferie per 30 giorni. Per il momento accetto, lo può fare, ma poi quando allo scadere dei 30 giorni mi vedo recapitare una raccomandata dove mi comunica una proroga di ulteriori 30 giorni prendo posizione e sempre, sentito l'avvocato, gli mando anch'io una raccomandata dove gli spiego che non accetto la sua arbitraria e illegale messa in ferie andando ad intaccare le ferie degli anni precedenti che, voglio, mi vengano pagate. Quindi comunico che mi sarei presentata di nuovo a lavoro. Per la seconda volta lo prendo alla sprovvista e, prima che mi ripresenti di nuovo in ufficio, mi manda un telegramma dove dice di non essere d’accordo sul contenuto della mia raccomandata e mi diffida dal presentarmi al lavoro.
L'avvocato mi tranquillizza, mi dice di lasciarlo fare che prima o poi dovrà pur prendere una decisione! E infatti, poi, arrabbiato per aver osato tenergli testa, essergli andata contro come nessuno mai aveva osato, averlo sfidato, perché convinto in maniera presuntuosa e arrogante che avrei dato le dimissioni come si aspettava, ha dovuto per forza di cose licenziarmi.
Abbiamo già deciso di impugnare subito il licenziamento e poi si vedrà!
Caro Carlo, ora che posso e sto meglio voglio parlare e raccontare tutto ciò, lo voglio fare in primis per me, e poi anche per evitare che soprusi simili vengano ancora commessi.
Scusami se mi sono dilungata un po’ troppo, ma sappi che ho tralasciato tante altre che avrei potuto dirti, e poi scusa se sono stata anche un po’ disarticolata [...].
Grazie con un abbraccio, R. (Cagliari)
Caro Carlo,
grazie ancora per l'interessamento, ne avevo proprio bisogno! Avevo già pensato di scriverti direttamente prima di pubblicare qualcosa in bacheca e raccontarti, in breve, la mia storia rispondendo, in sostanza, proprio alle domande del tuo test.
Cercherò di essere sintetica... spero!
Sono nata in un paesino in provincia di Cagliari e, in questa città, ho studiato conseguendo la maturità classica nel 1983. In seguito mi sono iscritta in giurisprudenza, ma ho dovuto abbandonare gli studi perché - a soli 20 anni - ho perso mio padre per un tumore (aveva 49 anni!); così ho iniziato prima ad aiutare, e poi a sostituire, mia madre nella gestione del nostro negozio di generi alimentari permettendo a mio fratello e a mia sorella (più piccoli di me) di terminare le superiori.
Grazie anche a un corso di dattilografia fatto nel frattempo, nel 1987 vengo assunta come impiegata in una grossa azienda operante nel settore metalmeccanico […]. Dopo un breve periodo in cui mi sono occupata di segreteria, fin da subito vado ad affiancare l'unica collega che si occupava del personale e, così, imparo tutto ciò che concerne quel settore […].
In breve tempo riesco ad acquisire tanta consapevolezza e professionalità da finire per gestire autonomamente con la mia collega (consulente del lavoro con la qualifica di impiegata amm.va 7^ liv. il più alto nel ccnl metalmecc.) l'ufficio del Personale.
Nonostante responsabilità di un certo tipo, tanto lavoro (l'azienda ha centinaia di dipendenti), rapporti non sempre sereni con i sindacati (perché io sono sempre stata dalla parte dell'azienda), riusciamo a organizzarci talmente bene con [la mia collega], che oramai anche il capo ci dà massima fiducia e libertà anche nelle pratiche più delicate... anzi lui è orgoglioso e molto contento di noi due, forse anche un po’ di più rispetto alle altre due colleghe che si occupano di contabilità, meno indipendenti e divenute anche loro mie carissime amiche. Oltre loro due ci sono anche una segretaria e dei colleghi maschi che collaborano col titolare […].
A giugno 2007, la moglie del capo, dopo forse 3 anni che non veniva in ufficio, si presenta di punto in bianco e va a salutare e parlare con tutte le mie colleghe eccetto me. Mentre va via io la richiamo indietro salutandola, ma la reazione di questa donna è spaventosa: mi risponde urlando e aggredendomi verbalmente davanti a tutti con termini poco piacevoli e alla mia richiesta di spiegazioni, invitandola alla calma, esagera ancora di più minacciandomi di licenziamento e invitandomi sgarbatamente a dare le dimissioni.
Puoi immaginare la mia vergogna e il mio stato d'animo. Il capo non c'era e quindi ne parlo con lui il giorno dopo... mi risponde che sapeva tutto e mi invita a stare serena, la moglie sta attraversando un periodo critico, uno dei tanti, e mi consiglia di continuare a lavorare come ho sempre fatto perché l'azienda ha bisogno di me.
Ciò mi rasserena ma dopo un paio di giorni spariscono dalla mia scrivania oggetti personali. Intuisco ma lascio perdere. Nel frattempo, iniziano le numerose visite in ufficio da parte della figlia ventenne, con la quale ho avuto sempre un ottimo rapporto, e che, entra salutando per nome solo la collega e, dandomi le spalle fisicamente, rivolge la parola solo a lei. Poi al rientro dalle ferie in agosto di nuovo non trovo più altri oggetti personali, compreso l'attestato di un corso di aggiornamento.
Anche il capo cambia tantissimo nei miei confronti: non mi rivolge più la parola e se lo fa è con arroganza, quasi non mi saluta e, se ha necessità di qualcosa, si rivolge solo a Sabrina. Io sono insofferente, mi dispiace tanto, anche per il forte affiatamento nei suoi confronti, sto male ma faccio finta di nulla, anzi, grazie ai consigli e all'affetto di mio marito paradossalmente questa situazione inizia a irritarmi talmente tanto che mi do ancora più da fare lavorando come non mai (nel frattempo con mio marito facciamo una chiacchierata anche con un ispettore del lavoro che mi dice di continuare così).
E' evidente che questa mia inaspettata reazione irrita anche il capo […]. Il 26 marzo 2008, dopo un'intera giornata di lavoro, il capo mi chiama nel suo ufficio (10 minuti prima che uscissi) per dirmi, con aria bonaria e paterna, che, a causa di problemi familiari, io dal giorno successivo non mi sarei dovuta presentare a lavoro, ma giusto il tempo di qualche mese perché poi mi avrebbe richiamata, anche se nel frattempo mi suggeriva di trovare un altro lavoro. Non avrei avuto però alcun problema perché mi avrebbe pagato lo stipendio ugualmente segnandomi le 8 ore in giornaliera. Io stordita e incredula gli rispondo che è un'ingiustizia, che io voglio lavorare. Ma lui mi risponde di stare tranquilla promettendomi e ribadendo che mi avrebbe continuato a dare lo stipendio senza lavorare fino a quando non ne avessi trovato un altro. Tra pianti e disperazione racconto tutto a mio marito che più lucidamente mi dice che di sicuro mi vuole incastrare e, poiché sono stata molto male durante la notte, l'indomani vado dalla mia dottoressa, alla quale racconto tutto, e mi da tre giorni di malattia.
Pensa che quando mio marito si presenta in ufficio per consegnare il certificato, dopo due giorni, nella mia scrivania, nel mio ufficio, in mezzo alle mie cose C'ERA UN'ALTRA RAGAZZA che prendeva il mio posto!
Vado subito da questa mia amica avvocato ed è stata lei ad indicarmi una psicologa/psichiatra a cui rivolgermi e che ha riscontrato fin da subito il mio grave stato ansioso e depressivo.
Dopo qualche mese di malattia, volendo tornare al lavoro, l'avvocato mi asseconda suggerendomi di telefonare e parlare col capo che, invece, mi ribadisce la stessa cosa. La telefonata viene ascoltata anche dall'avvocato. Io ancora più depressa e, dopo alcuni mesi sempre in malattia, dico all'avv. che voglio chiudere la vicenda dando le dimissioni, anche per una mia liberazione mentale. Mi viene sconsigliato, mi dice di tenere duro e di continuare la malattia fino ad un anno, visto che stavo ancora male. Riesce a convincermi e, dopo un anno, contro la mia volontà, perché debole e non convinta di farcela, mi convince anche a tornare in ufficio!
Accade che, prima mando un telegramma spiegando che, essendo terminato il periodo di malattia, mi sarei presentata sul posto di lavoro il 26 marzo 2009. Non avendo il tempo materiale per rispondere, mi presento in ufficio con gli avvocati... non puoi immaginare il disagio e imbarazzo dei colleghi (non ti ho detto che mi hanno abbandonato tutti eccetto una sola persona... altro colpo mortale!), il capo non si è fatto vedere per niente ma a mezzo [di una collega] mi comunica tramite lettera di essere in ferie per 30 giorni. Per il momento accetto, lo può fare, ma poi quando allo scadere dei 30 giorni mi vedo recapitare una raccomandata dove mi comunica una proroga di ulteriori 30 giorni prendo posizione e sempre, sentito l'avvocato, gli mando anch'io una raccomandata dove gli spiego che non accetto la sua arbitraria e illegale messa in ferie andando ad intaccare le ferie degli anni precedenti che, voglio, mi vengano pagate. Quindi comunico che mi sarei presentata di nuovo a lavoro. Per la seconda volta lo prendo alla sprovvista e, prima che mi ripresenti di nuovo in ufficio, mi manda un telegramma dove dice di non essere d’accordo sul contenuto della mia raccomandata e mi diffida dal presentarmi al lavoro.
L'avvocato mi tranquillizza, mi dice di lasciarlo fare che prima o poi dovrà pur prendere una decisione! E infatti, poi, arrabbiato per aver osato tenergli testa, essergli andata contro come nessuno mai aveva osato, averlo sfidato, perché convinto in maniera presuntuosa e arrogante che avrei dato le dimissioni come si aspettava, ha dovuto per forza di cose licenziarmi.
Abbiamo già deciso di impugnare subito il licenziamento e poi si vedrà!
Caro Carlo, ora che posso e sto meglio voglio parlare e raccontare tutto ciò, lo voglio fare in primis per me, e poi anche per evitare che soprusi simili vengano ancora commessi.
Scusami se mi sono dilungata un po’ troppo, ma sappi che ho tralasciato tante altre che avrei potuto dirti, e poi scusa se sono stata anche un po’ disarticolata [...].
Grazie con un abbraccio, R. (Cagliari)
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