Marco Rizzo: clima, inquinamento e lotta di classe

 

Clima, inquinamento e lotta di classe:

la via italiana di Marco Rizzo

di Carlo Silvano

Marco Rizzo (Democrazia sovrana popolare) consacra alle questioni ambientali quasi venti pagine del suo libro Riprendiamoci le chiavi di casa (pp. 81‑99), dove condensa una tesi che ricorre in molti suoi interventi pubblici: la crisi climatica è reale perché l’aria velenosa uccide – “fa venire il cancro”, ripete spesso –, ma l’agenda con cui se ne discute in Europa è scritta dal grande capitale per trasformare la paura in rendita. Il paradosso, sostiene, è che il 70 % delle emissioni mondiali proviene da un centinaio di multinazionali, mentre ai cittadini vengono imposti cappotti termici, auto elettriche e menù a base di insetti; è «un’ecologia di classe» in cui il popolo paga due volte, come contribuente e come consumatore. Da qui discende la proposta di sostituire “l’economia verde” (la cosidetta “green economy”) di mercato con un ambientalismo di Stato fondato su cinque assi.

Primo: nazionalizzare o commissariare gli impianti industriali ad alto impatto – dall’ex Ilva all’energia fossile – applicando gli articoli 42‑43 della Costituzione per subordinare la proprietà privata alla salute collettiva. L’acciaio e la petrolchimica, scrive, «vanno tenuti pubblici finché esistono», perché solo così lo Stato può imporre bonifiche, filtri e riconversioni senza temere la fuga dei capitali.

Secondo: investire nella manutenzione ecologica del territorio, dalle ferrovie regionali alla forestazione urbana, finanziandola con titoli di Stato collocati alla Banca d’Italia e con un’imposta straordinaria sui profitti delle compagnie energetiche.

Terzo: smantellare il mercato europeo dei crediti di carbonio, definito “licenza d’inquinare”, e sostituirlo con tetti di emissione fisici accompagnati da piani di chiusura programmata dei settori più sporchi – in particolare raffinazione petrolifera e armamenti, quest’ultimi accusati di assorbire risorse e di produrre emissioni superiori a interi Paesi NATO.

Quarto: preferire il trasporto collettivo a quello individuale tramite un programma decennale di elettrificazione delle linee merci, biglietto unico metropolitano e produzione nazionale di autobus ibridi, anziché incentivi all’auto privata elettrica che, a suo giudizio, “scarica sul sistema elettrico fossilizzato il problema dell’inquinamento”.

Quinto: democrazia scientifica; ogni misura climatica deve derivare da dati trasparenti e verificabili e da comitati di esperti indipendenti, poiché «l’emergenza permanente – dal Covid al clima – serve a mettere il silenziatore al dissenso».

Marco Rizzo non contesta la necessità di ridurre le emissioni, ma ribalta la gerarchia delle soluzioni. L’elemento guida dev’essere la salute pubblica – contrasto alle polveri sottili, ai cancerogeni industriali, alla cementificazione – non il commercio delle emissioni CO₂; l’obiettivo è togliere leve strategiche ai gruppi che oggi “monetizzano” la crisi ecologica. La sua piattaforma rifiuta la retorica apocalittica perché serve, dice, a legittimare austerità, delocalizzazioni verdi e nuovi debiti pubblici condizionati. Per questo rigetta l’ipotesi di una tassa sulle emissioni di CO₂ lineare sull’energia domestica, considerata regressiva, e propone invece un tributo progressivo sulle merci importate da Paesi con norme ambientali inferiori a quelli italiani.

Nel panorama politico italiano la posizione di Rizzo rompe la polarizzazione fra negazionismo e ambientalismo liberale. Pur concedendo che il clima stia cambiando, nega che bastino mercato e tecnologia a correggere la rotta; insieme, rifiuta il fatalismo che brandisce l’occupazione per giustificare l’inquinamento. In luogo della “conversione verde” finanziata da Bruxelles, immagina una sovranità ecologica che ricuce salute, lavoro e territorio: il diritto a respirare aria pulita diventa estensione del diritto al salario dignitoso, e la spesa pubblica ambientale un investimento produttivo affidato a imprese a controllo sociale.

Per la politica italiana il messaggio è duplice. Da un lato invita la Sinistra a non lasciare alle Destre la critica sociale alla transizione climatica, pena il rischio che l’ecologia diventi sinonimo di élite. Dall’altro costringe le Destre a confrontarsi con la domanda di giustizia ambientale, senza ricorrere a scorciatoie negazioniste. In un Paese dove l’inquinamento atmosferico causa oltre 50 mila morti premature l’anno e dove la spesa per il Superbonus ha superato i fondi destinati al trasporto pubblico locale, la proposta di “ambientalismo di classe” di Marco Rizzo potrebbe rivelarsi, se non la soluzione definitiva, almeno la cartina di tornasole per misurare la distanza tra retorica verde e politiche realmente a favore della maggioranza sociale.

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La figlia del professore” (romanzo). In un appartamento popolare ai margini di una città anonima, avvolto nel silenzio e nel tempo sospeso delle vite spezzate, un uomo si aggira tra i propri fantasmi. Ha quasi sessant'anni, un passato da docente liceale stimato e un'antica fede politica coltivata nei circoli della Sinistra militante. Oggi è un uomo solo, malato, dimenticato. La sua compagna lo ha lasciato anni prima, abbandonandolo assieme alla loro figlia. Le cause legali perse lo hanno trascinato nel baratro economico, privandolo della dignità e della serenità. Vive tra debiti e una malattia cronica che lo piega ogni giorno un po' di più. Ma il dolore più grande è proprio tra quelle mura che un tempo erano casa: sua figlia, poco più che ventenne, si prostituisce per pagarsi la droga, portando clienti nella stessa casa dove lui legge, riflette, sopravvive. Il romanzo si muove tra le ombre dense di questa convivenza muta e tesa, raccontando con lucidità e compassione il lento disfacimento di due vite: quella del padre, che rilegge la propria esistenza alla luce di fallimenti personali, errori politici, ideologie sostenute senza piena coscienza, e quella della figlia, che vive intrappolata in un presente devastato, ma ancora attraversato da sprazzi di umanità. Entrambi abitano uno spazio fisico e interiore segnato dall'abbandono e dalla disillusione. Eppure, tra le pagine, emergono anche frammenti di affetto non detto, ricordi tenaci di un giorno al mare, di uno sguardo paterno, di un'infanzia che poteva essere diversa.

 


 È dal 1996 che don Pietro Zardo svolge la sua missione sacerdotale a beneficio dei reclusi del carcere di Treviso. Nei suoi quotidiani incontri con i detenuti ascolta storie inimmaginabili e per ognuno di loro ha una parola di conforto, un incoraggiamento e quando occorre anche un aiuto concreto per vivere meglio dietro le sbarre. Non si può mettere piede in un carcere in maniera pietistica, ed è fondamentale essere il più vicino possibile alla realtà dei reclusi. Il carcere ha permesso a don Pietro di maturare esperienze di vita con uno spessore e una problematicità difficili da capire per chi, oltre il muro di cinta, svolge la propria vita tra famiglia, lavoro e tempo libero. Questo prezioso volume è indirizzato agli educatori, agli insegnanti, ai genitori e soprattutto ai giovani.


Il mondo della prostituzione, con la sua scia di compromessi e dolori nascosti, rappresenta una drammatica disintegrazione dell'individuo, in cui la persona coinvolta si trova costretta a barattare il proprio corpo in cambio di un'economia di piacere sessuale. Questo processo insensibile riduce la complessità dell'essere umano a un mero oggetto di desiderio, mettendo in discussione la sua integrità e dignità. La donna, vittima di questa pratica, subisce una profonda "oggettificazione", dove la propria identità si disintegra, e il proprio valore viene misurato esclusivamente in termini monetari o sessuali. Tutto ciò era stato ben compreso dalla sen. Lina Merlin che aveva raccolto in un volume le lettere di tante giovani donne che si prostituivano nei bordelli, ed oggi, riscoprire questi documenti ci può aiutare a comprendere un fenomeno che va estirpato dalla nostra società. Prefazione di Gian Carlo Trevisan.

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