Prostituzione: la mercificazione del corpo femminile non è e non sarà mai lavoro

 

 

(Il Gazzettino di domenica 13 aprile 2025)

 

Prostituzione:

la mercificazione del corpo femminile

non è e non sarà mai lavoro

di Carlo Silvano

Nell’epoca in cui tutto sembra poter essere quantificato, classificato e trasformato in “servizio”, anche la prostituzione rischia di essere assorbita nel linguaggio economico come una voce neutra, un’attività come le altre. La recente introduzione da parte dell’Istat del codice Ateco 96.99.92, che include i “servizi sessuali”, ha riaperto il dibattito con un segnale pericoloso: quello della legittimazione implicita di una pratica che, lungi dall’essere un’attività economica liberamente scelta, rappresenta una delle forme più brutali di sfruttamento e disuguaglianza.

In alcuni ambienti, la prostituzione viene proposta come “lavoro sessuale”, in un’ottica di liberalizzazione e regolamentazione. Ma questa visione trascura un dato fondamentale: la prostituzione non nasce da una libera scelta, ma da una condizione di necessità, vulnerabilità, marginalità o, ancor peggio, da sfruttamento e tratta. La stragrande maggioranza delle persone coinvolte non si prostituisce per realizzazione personale, ma perché non ha alternative e spesso perché subisce violenza.

 

(Il Gazzettino di domenica 13 aprile 2025)

 

Accettare che il corpo femminile — o in alcuni casi anche quello maschile — possa essere comprato, usato e consumato, significa spingere la nostra società verso una deriva disumanizzante in cui la persona viene ridotta a merce. E il lavoro, per definizione, non può mai coincidere con la mercificazione del corpo o della dignità. Se ciò che distingue il lavoro da ogni altra attività è il rispetto della persona che lo compie, allora la prostituzione ne è l’esatto opposto.

Inoltre, normalizzare la prostituzione ha gravi conseguenze culturali: significa alimentare una visione della donna (e del corpo umano) come oggetto disponibile, come risorsa da acquistare. È in questa visione che si radica anche il fenomeno, ormai tragicamente frequente, del femminicidio. La “cultura” che uccide le donne è la stessa che le compra, che ne considera accettabile l’uso e il possesso.

È per questo che il cosiddetto “modello nordico”, adottato in Paesi come Svezia, Norvegia e Francia, rappresenta un’alternativa di civiltà: non criminalizza chi si prostituisce, ma scoraggia e punisce la domanda. Colpisce chi compra sesso, responsabilizzando chi alimenta il mercato, e al tempo stesso promuove programmi di uscita e reinserimento sociale per chi è intrappolato in situazioni di sfruttamento.

La prostituzione non è una questione morale, ma profondamente economica e sociale. Riguarda la concezione che abbiamo del lavoro, della libertà e dell’uguaglianza. In un sistema democratico che riconosce la pari dignità di tutti i cittadini, non può esistere una forma di “lavoro” che si fondi sull’umiliazione, sull’asservimento e sulla diseguaglianza strutturale tra chi paga e chi subisce.

Classificare la prostituzione come lavoro non è un atto neutro, ma una scelta politica e culturale che spalanca le porte a una legittimazione pericolosa. L’economia ha il dovere di riflettere sui suoi limiti etici. Non tutto ciò che produce scambio e denaro è lavoro. Non tutto ciò che genera profitto è legittimo.

La dignità umana non può essere messa sul mercato.

___________________ 

Il presente blog è curato da Carlo Silvano, autore di numerosi volumi. Per informazioni cliccare sul collegamento: Libri di Carlo Silvano
 

Commenti

Post popolari in questo blog

Le lotte sindacali alla luce della Lettera dell’apostolo Giacomo (5,1-6)

Proteggere le aziende con la riscossione del credito e le informazioni commerciali