Se il mobbing uccide...
Qui di seguito propongo un capitolo tratto dal libro "Un lavoratore di troppo. Storie di mobbing nella Marca trevigiana", di Carlo Silvano e Agostino La Rana...
Capitolo
II
Sembra che una
delle prime cause celebrate per mobbing al Tribunale di Treviso riguardi un
giovane ragioniere costretto a licenziarsi così da lasciare il proprio posto di
lavoro ad un collega, perché così avevano deciso i suoi titolari. A raccontarmi
questa triste storia è l’avv. Enio Borracelli quando, il 2 aprile del 2008, mi
reco nel suo studio a Preganziol per intervistarlo.
“Il mio assistito –
riferisce l’avv. Borracelli – era stato assunto come impiegato in una ditta di
Dosson, in provincia di Treviso, nel 1995, e a mio avviso si trattava di un
dipendente modello perché nel 1997 veniva già promosso, su iniziativa del
datore, a un livello superiore, e successivamente, nel 1999, otteneva un
significativo aumento nella retribuzione mensile”.
Poi cosa è
successo?
Improvvisamente il
18 febbraio del 2000 i titolari della sua ditta lo convocano nel loro ufficio e
gli chiedono di trascrivere e di firmare una lettera di dimissioni già
predisposta…
E lui come
reagì?
Si rifiutò. Era
incredulo e frastornato anche perché non gli veniva data alcuna giustificazione
riguardo a questa assurda richiesta.
Come continuò
questa storia?
Il mio assistito
chiese e ottenne un colloquio chiarificatore con un consulente della ditta, e
quest’ultimo, che aveva già provveduto arbitrariamente ad inserire il nome di
questo ragazzo nella banca dati predisposta per il personale in cerca di una
nuova occupazione, gli rinnovava la richiesta di dimettersi in cambio di una
indennità pari a tre mensilità. Il ragazzo si rifiutò di sottoscrivere le
dimissioni dando il via al suo calvario, anche se breve, in azienda.
Cosa gli capitò?
Da quel momento
veniva fatto oggetto di continue pressioni da parte dei titolari, i quali erano
intenzionati a sostituirlo con un nuovo dipendente.
C’era
effettivamente un progetto della ditta di assumere un altro dipendente?
Sì! Anzi, era stato
assunto già un altro impiegato, per cui l’azienda si trovava ad avere un
lavoratore in più rispetto alle proprie esigenze[1].
Si verificarono
altri fatti spiacevoli?
Dopo nemmeno due
settimane dal primo incontro con i titolari, e precisamente il 2 marzo, il
dipendente era nuovamente convocato in un locale della ditta da uno dei due
proprietari dell’azienda e lì veniva praticamente sequestrato, interrogato e
accusato di aver fotocopiato e di aver sottratto una non ben definita
documentazione segretissima. In quel locale era presente anche il consulente
della ditta. Al povero impiegato fu intimato di non presentarsi più sul posto
di lavoro, pena la richiesta di intervento della forza pubblica.
Chi non conosce
storie di mobbing fa fatica a credere cose del genere…
In effetti, i
titolari della ditta, forti del potere di supremazia, non solo nei confronti di
questo ragazzo ma anche degli altri loro dipendenti, chiamarono il capofabbrica
e un’altra impiegata affinché formulassero pesanti accuse nei confronti
dell’interrogato[2], il quale, con sgomento, non potè fare
altro che chiedere l’intervento di un legale. Fu un brutto momento per lui e si
ritrovò tra persone che lo accusavano e un altro che gli “consigliava”
l’immediato recesso dal posto di lavoro con lettera di dimissioni. Oltre al
danno, però, avrebbe dovuto subire anche la beffa in quanto gli si chiedeva di
rimanere a disposizione dell’azienda per il passaggio di consegne al nuovo
impiegato che l’avrebbe sostituito. Non fu un momento facile perché lui aveva
paura di subire una grave ingiustizia: gli volevano far credere, infatti, a un
licenziamento per giusta causa per la sottrazione di documenti. A ciò si
aggiungeva anche l’intimidazione di non trovare un altro lavoro per molto
tempo.
A quel punto ha
ceduto?
No. Rifiutò le
indecenti “proposte” che gli venivano formulate perché sapeva di non aver
commesso alcuna irregolarità né tanto meno alcun reato.
E il datore di
lavoro?
Uno dei due
titolari reagì intimandogli di non presentarsi più sul posto di
lavoro, altrimenti avrebbe chiamato i carabinieri.
Poteva farlo?
Lo fece: il giorno
dopo, alle ore 7.55, quando come di consueto il dipendente si recò in ditta,
uno dei due titolari gli vietò l’accesso obbligandolo a ritornare a casa. Un
rientro amaro, anche perché in giornata il ragazzo riceveva un telegramma con
il quale si ingiungeva l’immediato licenziamento[3].
Mi sembra un po’
eccessivo: una palese violazione dello “Statuto dei lavoratori”…
Sì, e la stessa
ditta, il giorno dopo, rilevata la non correttezza del licenziamento in quanto
conscia di aver violato l’articolo 7 dello Statuto da lei ora menzionato,
revocava il provvedimento e procedeva ad una sospensione cautelare di sei
giorni.
A quel punto
quale strada iniziò a percorrere il suo assistito?
Contattava immediatamente
la Cgil di Treviso, la quale, già il giorno dopo, provvedeva tramite un proprio
incaricato ad inviare alla ditta una raccomandata avente per oggetto
l’impugnazione dell’illegittimo licenziamento e la contestuale richiesta alla
competente Direzione provinciale del lavoro di Treviso del tentativo di
conciliazione.
Sortì qualche
effetto questa lettera del sindacato?
In sostanza no. Sia
il 13 che il 21 marzo del 2000, presso lo studio del consulente della ditta, si
svolsero due incontri: da una parte l’azienda, dall’altra il lavoratore
assistito da un sindacalista, ma non c’erano le condizioni per avviare un
tentativo di conciliazione. Tra l’altro, in data 14 marzo, il datore di lavoro
aveva provveduto ad inviare una raccomandata nella quale si ammetteva
espressamente l’interrogatorio del lavoratore.
Cos’altro c’era
scritto in questa lettera?
Si confermava la
sospensione cautelare, si ribadivano alcune delle accuse già formulate in sede
di interrogatorio e si contestavano altri nuovi fatti[4].
Il lavoratore
contestò il contenuto di questa lettera?
Certo. Lo fece in
data 17 marzo con una lettera redatta in collaborazione con il sindacalista,
nella quale sollevò le prime contestazioni sia in merito all’irregolarità dei
provvedimenti adottati, sia riguardo alle gravi accuse formulate nei suoi
confronti.
Lei accennava ad
accuse mosse da altri dipendenti nei confronti del suo assistito…
Un’impiegata della
ditta, così come viene affermato anche in una lettera a firma dei titolari in
data 14 marzo 2000, aveva riferito di essere stata impedita nello svolgimento
del proprio lavoro al computer in quanto il mio assistito ne stava facendo un
uso improprio.
Non è da
escludere che fino a poche settimane addietro il suo assistito e quest’impiegata
fossero soliti prendere il caffè insieme…
Certamente il
lavoratore non si “allea” con il collega, ma con l’azienda, al sol fine di
conservare il posto di lavoro, anche se conscio del danno che sta per causare.
Le dirò di più: sa perfettamente del pericolo che sta per correre e che in
qualunque momento la prossima “vittima” potrebbe essere lei!
Furono
certamente settimane molto dure da sopportare per questo lavoratore, anche
sotto il profilo fisico…
Per quanto riguarda
la sua salute, furono giorni molto difficili: iniziò ad accusare sintomi
depressivi e a provare un estremo disagio nel ritornare sul luogo di lavoro. Il
suo medico curante accertò questi sintomi, tanto è che il lavoratore fu
costretto a restare a casa per una quindicina di giorni così da curarsi[5]. E del resto non poteva fare diversamente: i suoi titolari
avevano apertamente dichiarato che la sua presenza non era ben accetta, anzi
era considerata in modo così negativo da voler chiedere l’intervento delle
forze dell’ordine qualora il lavoratore si fosse presentato in azienda.
Visto che era
impossibile continuare questo rapporto di lavoro, quale strategia era opportuno
adottare?
Il lavoratore
rassegnò le proprie dimissioni per giusta causa[6]:
scrisse la lettera in data 22 marzo con decorrenza il giorno 27. Era oramai un
rapporto di lavoro che non poteva più proseguire, per fatti imputabili
esclusivamente al datore di lavoro. In pari data, come legale di quello
sfortunato lavoratore, mi adoperai per inviare sia ai titolari della ditta che
al loro consulente, una comunicazione per contestare in toto i provvedimenti
disciplinari. A fine marzo, poi, si provvedeva a depositare presso la Procura
della Repubblica di Treviso querela contro uno dei due titolari e contro alcuni
dipendenti della ditta.
A questo punto
non avrebbe sortito alcun risultato positivo una eventuale conciliazione alla
Direzione provinciale del lavoro…
Un tentativo di
conciliazione è avvenuto comunque presso la Direzione provinciale del lavoro, e
precisamente in data 15 maggio 2000. In quella sede le parti confermarono le
reciproche pretese e quindi non fu raggiunto alcun tipo di accordo.
Avvocato
Borracelli, ritornando alla lettera con cui il lavoratore ha interrotto il
rapporto di lavoro, le chiedo: quali situazioni vedono le dimissioni
contemplate nella nozione di giusta causa?
Quelle in cui la
prosecuzione del rapporto sia divenuta intollerabile per il lavoratore, tenuto
conto della sua personalità, della natura del rapporto di lavoro e
dell’ambiente in cui questo si svolge. La rilevanza della giusta causa è stata
ammessa dalla giurisprudenza in tutta una serie di situazioni che, pur non
afferenti agli obblighi contrattuali, nondimeno legittimano il recesso del
lavoratore perché vengono ad incidere sulla sua libertà e dignità, ponendo in
uno stato di disagio che non permette la prosecuzione neppure provvisoria del
rapporto. Così il comportamento ingiurioso integra gli estremi della giusta
causa di dimissioni, posto in essere dal datore nei confronti del lavoratore[7].
Riguardo al
“bossing” inteso come mobbing verticale, cioè esercitato dal datore di lavoro
sul dipendente, cosa può insegnare questa vicenda legale da lei seguita e
vissuta in Tribunale per tutelare la dignità del lavoratore come persona?
Alla luce anche di
questo caso giudiziario iniziato nel 2000 e terminato con una sentenza del
giudice nel 2003, credo che quando il datore di lavoro decide di ridurre il
personale, può mettere in atto strategie persecutorie che tendono a far sì che
siano le stesse persone a volersi dimettere dal lavoro per le umiliazioni e le
demoralizzazioni che sono costrette a subire. Ho compreso che, in questi casi,
la condotta del datore è caratterizzata non solo dalla volontarietà, ma anche
dall’intento persecutorio…
Cioè si può
ravvisare un dolo specifico consistente nel molestare, terrorizzare,
discriminare ed emarginare il lavoratore?
Esatto. E in queste
situazioni il lavoratore, cioè la “vittima”, è come se venisse paralizzato: ha
davanti a sé un “nemico” estremamente più grande e più forte di lui.
In effetti
l’azienda può creare parecchi problemi ad un dipendente…
Sì, perché ha a
disposizione molti strumenti di persecuzione: dalle mansioni nocive, ai
colleghi in competizione, alle gratificazioni, alle offese, alle accuse, alle
sgridate e così via.
Del resto il
lavoratore che subisce mobbing vive uno stato di incertezza molto forte.
Questo perché è
perfettamente consapevole del destino che dovrà subire: ogni giorno, infatti,
potrebbe essere quello decisivo per la conclusione del rapporto di lavoro.
Inoltre, nessuno può realmente anticipargli quali strategie adotterà la ditta
per cercare di licenziarlo o di indurlo alle dimissioni.
E quindi vive in
uno stato di continua allerta.
Certo. In un
contesto del genere lo stress cresce a dismisura a causa del rischio di perdere
il lavoro, e quindi di trovarsi senza una retribuzione. E’ bene ricordare che
l’importanza di avere un’occupazione lavorativa è riconosciuta da ragioni
esistenziali. La condizione di coloro che devono subire il bossing è molto
spiacevole perché si rimane comunque in uno stato di totale impotenza, dove
solo una parte ha la facoltà di decidere l’andamento del conflitto, e il solo
entrare in questo stato provoca stress che si può definire assoluto; coloro,
infatti, che non hanno alternative occupazionali rispetto al loro lavoro, ma
hanno necessità di lavorare, sono costretti a rimanere presso l’azienda,
subendo qualsiasi angheria, senza alcuna possibilità di difesa concreta,
sperando che improvvisamente, e senza spiegazione, qualcosa cambi a loro
favore.
Da quanto mi
dice si può arrivare a sostenere che il bossing è anche una questione di
paziente attesa, fino a quando il lavoratore non arriva a logorarsi, a
consumarsi lentamente e definitivamente. Andando però nel campo avverso, le
domando se, secondo lei, l’azienda è, in genere, in grado di prevedere il
fallimento delle proprie strategie persecutorie messe in atto nei confronti del
lavoratore preso di mira.
Credo di no, perché
l’azienda è consapevole di essere molto forte e di avere ogni strumento
possibile per realizzare le proprie aspettative. Questa situazione si è
verificata anche nel caso del lavoratore da me assistito: l’azienda ha agito in
modo tale da indurre il dipendente a rassegnare le proprie dimissioni; il
lavoratore era impotente di fronte alle accuse ed ai comportamenti dei titolari
e dei dipendenti.
Anche per i
titolari, comunque, non era una situazione facile da gestire…
Certamente anche la
ditta, nella persona dei titolari, subiva un forte stress: il comportamento del
dipendente era imprevedibile e quindi, col passare del tempo, il rischio di
riuscita nell’intento diventava sempre più alto. I titolari, in effetti, si
erano già impegnati ad assumere un’altra persona, ma non riuscivano a disfarsi
del mio assistito divenuto, oramai, un dipendente inutile e alquanto scomodo.
Per questo motivo i titolari si trovavano in una fase di allarme e
sovra-attivazione tale da indurli a procedere ad un illegittimo ed arbitrario
licenziamento. E’ chiaro che il fallimento parziale delle strategie, o anche il
semplice ritardo nel risultato delle stesse, provocava un forte stress per la
sorpresa della situazione – totalmente inaspettata in precedenza –, che induceva
gli stessi datori di lavoro ad agire imprudentemente. Faccio presente che una
caratteristica del bossing è che chi lo esercita si sente completamente sicuro
del proprio successo, non essendo minimamente in grado di prendere in
considerazione la possibilità di commettere degli errori di valutazione. Per
questo lo stress è molto forte ed incisivo.
Riguardo allo
stress, però, il lavoratore ha sempre la peggio…
Diciamo che la
potenza della ditta è tale per cui nella maggioranza dei casi riesce a
realizzare concretamente i propri progetti, di conseguenza lo stress è molto
intenso ma di media durata.
In quel
frangente, trovandosi in un ambiente non più sereno, il lavoratore era in grado
di svolgere le proprie mansioni?
No, e iniziava ad
accusare uno stato d’ansia e panico alla sola idea di ritornare sul luogo di
lavoro dove avrebbe incontrato i titolari e i colleghi. In quella situazione il
lavoratore aveva ridotto la possibilità di orientare il pensiero verso altri
ragionamenti che non fossero quelli lavorativi, e lo stress accumulato gli
provocava una depressione tale da sfociare in colica addominale con vomito.
Come si è
concluso il processo?
Come ho detto
prima, a fine marzo 2000 il lavoratore presenta una lettera di licenziamento
per poi iniziare a lavorare presso un’altra ditta. A luglio 2000 fu avviata una
causa di lavoro ma il processo venne interrotto in data 10 novembre 2000 a
causa dell'improvvisa morte del lavoratore. Su richiesta di un familiare che
voleva giustizia per il proprio caro venne però ripreso, e in data 23 maggio
2003 il giudice Massimo De Luca condannava la ditta a risarcire gli eredi del
lavoratore per il danno sofferto da mobbing.
_________________
[1] Nella sentenza formulata dal giudice del
lavoro si legge: ‹‹E' evidente dal racconto [di uno dei due titolari] che
l'azienda a partire dal gennaio – febbraio 2000 voleva liberarsi di un
dipendente che non le dava più garanzie di stabilità e con il quale si era
anche creato un certo attrito. Inizialmente si cercò di indurre il lavoratore a
dimettersi (cfr. la testimonianza del consulente del lavoro) e quando le
pressioni non dettero i risultati sperati si decise di risolvere il rapporto in
altro modo, dato anche che nel frattempo era già stato assunto il sostituto del
[lavoratore]. Dalle testimonianze del padre del [lavoratore] e dell'amico di
famiglia [...] si evince che praticamente per tutto il mese di febbraio si
fecero pressioni sul lavoratore per indurlo a lasciare il posto di lavoro,
promettendogli anche una buonuscita in caso di dimissioni. La non riuscita di
tale tentativo, vuoi perché [il lavoratore] non era riuscito a reperire un
altro posto di lavoro di suo gradimento, vuoi perché riteneva troppo modesta la
somma promessagli in cambio delle dimissioni, aveva messo in grosse difficoltà
la ditta che, avendo assunto nel frattempo [un altro lavoratore] si trovava con
due impiegati per un posto›› (sentenza n. 236/2003).
[2] Nella sentenza del giudice si legge: ‹‹Il
teste [...], capofabbrica della [ditta], ha raccontato che quella mattina [uno
dei due titolari], che era assieme a lui, sbatté una porta contro un
appendiabiti sui cui vi era la giacca del [lavoratore], che appendiabiti e
giacca caddero al suolo e che da questa uscirono dei documenti. Il racconto del
[capofabbrica] si collega a questo punto con quanto riferito dall'altra
impiegata [...]e cioè che quella mattina [il lavoratore] aveva fotocopiato dei
documenti aziendali. Di qui le accuse al dipendente di aver sottratto documenti
aziendali segreti o comunque riservati, esplicitate nel corso della riunione
del 2 marzo, cui seguì il telegramma di licenziamento. Peccato che, in realtà,
di questi documenti non vi sia traccia e anche a voler credere al racconto del
[capofabbrica] sulla accidentale caduta della giacca [del lavoratore]
dall'appendiabiti, manca del tutto la prova che effettivamente il dipendente
nascondesse quella mattina nella giacca documenti aziendali riservati. Basta
leggere per intero la testimonianza dello stesso [capofabbrica], che al termine
della deposizione dice: “Quel giorno dalla tasca della giacca erano caduti
documenti postali, non so se fossero della ditta [...]”. E ancora: in
quell'occasione (riunione del 2 marzo 2000) non vidi alcun documento; non so se
c'erano documenti sopra il tavolo”. La testimonianza di quello che dovrebbe
essere il maggior teste “a sostegno dell'accusa” fa capire come la ditta montò
tutta la vicenda per avere il pretesto per sbarazzarsi [del lavoratore]››
(sentenza n. 236/2003).
[3] Nel ricorso al giudice del Tribunale di
Treviso (datato 27 giugno e depositato il 4 luglio 2000), l’avv. Enio
Borracelli scrive: ‹‹In data 2 marzo 2000 la Ditta […] procedeva ad un
arbitrario ed illegittimo licenziamento per giusta causa violando così l’art. 7
dello Statuto dei Lavoratori. E’ ormai consolidato sia in dottrina, sia in
giurisprudenza, che il licenziamento disciplinare debba rispettare le garanzie
procedurali ex art. 7, commi 2 e 3 L. 300/70. Tale normativa importa, dunque, a
carico del datore del lavoro, la preventiva contestazione dell’addebito,
l’audizione del lavoratore e la facoltà del medesimo di farsi assistere da un
rappresentante sindacale. Nella fattispecie de quo non è stata applicata alcuna
garanzia, considerando che alcun addebito scritto è mai stato formulato ma, al
contrario è stata avanzata semplicemente un richiesta di dimissioni volontarie;
l’audizione del lavoratore con l’assistenza di un rappresentante sindacale si è
realizzata alla stregua di un vero e proprio interrogatorio – peraltro ammesso
per iscritto dall’azienda […] che induceva lo stesso ricorrente a chiedere
l’intervento di un legale, anziché di un sindacalista!››.
[4] Diversi studiosi concordano nell'affermare
che quando la “vittima” denuncia le violenze che deve subire in azienda, viene
colpevolizzata dai suoi “persecutori”. Da questi ultimi, la “vittima” viene
infatti additata – soprattutto per il suo modo di essere e di comportarsi –
come responsabile delle problematiche sorte sul posto di lavoro.
[5] Nella sentenza del giudice si legge:
‹‹Sulla base dell'istruttoria svolta si può, altresì, ritenere raggiunta la
prova del nesso di causalità tra la patologia insorta al lavoratore (stato
depressivo) ed il comportamento antigiuridico del datore di lavoro. Sullo stato
di salute del [lavoratore] in quel periodo ha significativamente deposto il suo
medico di base che ha detto: “... in quel periodo venne un paio di volte nel
mio ambulatorio lamentando coliche addominali con vomito. Nel corso della
seconda visita ricordo che il [lavoratore] lamentava una depressione. Constatai
che in effetti si trovava in uno stato depressivo con deperimento organico,
tanto è vero che richiesi per lui una visita neurologica... prima di quelle due
occasioni lo avevo visto solo una volta per un'infezione delle prime vie
respiratorie e non mi risulta avesse mai lamentato altri problemi”. Che lo
stato ansioso depressivo [del lavoratore] fosse dovuto alla situazione venutasi
a creare nell'ambiente di lavoro si evince inequivocabilmente dalle deposizioni
dei testi [...] Il danno subito dal [lavoratore], tipica ipotesi di danno
esistenziale per quella parte di dottrina che ne ha elaborato la categoria, può
essere altresì qualificato come danno biologico temporaneo, vista la
compromissione dello stato psico-fisico del soggetto per un certo periodo››
(sentenza n. 236/2003).
[6] Nel ricorso preparato da Borracelli, il
legale osserva quanto segue: ‹‹Dallo svolgimento dei fatti […] descritti il
[lavoratore], ai sensi dell’art. 2119 c.c. recedeva senza preavviso dal
contratto a tempo indeterminato a seguito dell’illegittimo comportamento tenuto
dai [titolari] che non consentiva la prosecuzione, anche provvisoria, del
rapporto di lavoro. Si osserva che le dimissioni del lavoratore mantengono solo
in apparenza il connotato della volontarietà, in quanto esse trovano
giustificazione e di fatto risultano provate da un comportamento dell’altra
parte, al verificarsi del quale il lavoratore può recedere dal contratto senza
necessità di dare il normale preavviso e maturando, per contro, il diritto alla
corresponsione dell’indennità sostitutiva del preavviso››. E' doverosa
un'osservazione: il lavoratore è stremato e, non riuscendo a trovare una
soluzione al problema, sceglie la strada delle dimissioni volontarie quale
estremo tentativo di salvezza; si tratta della fase conclusiva dell'azione
mobbizzante che ha dovuto subire e che è culminata con il suo completo
isolamento. In questo contesto non deve meravigliare se una persona manifesta
depressione del tono dell'umore e somatizzazioni.
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