Mobbing: credibilità della vittima e ruolo dei colleghi

Un problema che accomuna molte vittime del mobbing è la credibilità: gli stessi familiari e gli amici più cari stentano a credere quando un lavoratore mobbizzato racconta di episodi che si sono verificati o perdurano a suo danno nei luoghi di lavoro, e sono, in diversi casi, portati a credere che esageri e che veda nemici dappertutto. “Forse se tu ti comportassi diversamente...” oppure “devi anche capire le ragioni del capo...”, sono frasi che chi parla del mobbing subìto spesso si sente ripetere da chi non vive situazioni di disagio sul posto di lavoro. Lo stesso mobbizzato si pone degli interrogativi e cerca di comprendere dove e quando ha sbagliato, ripercorrendo a ritroso nel tempo la propria carriera lavorativa, e non gli va proprio giù il pensiero che la causa dei propri problemi lavorativi si sintetizzi in un semplice motivo: il titolare ha promesso quel posto di lavoro, a volte inteso come stipendio, ad un'altra persona, ed ora non contano nulla gli anni di lavoro, le esperienze accumulate insieme allo stress, gli straordinari fatti non per avere una busta paga più “pesante” ma semplicemente per attaccamento ad un'azienda che è diventata parte integrante della propria vita personale e anche familiare. Basti pensare, ad esempio, a tutti quei lavoratori che scelgono l'asilo nido o la scuola materna per il proprio figlio non in base alla buona nomea che ha ma, molto più semplicemente, perché quella struttura è ubicata vicino all'azienda e consente di arrivare puntuali al lavoro, magari anche qualche minuto prima.
Altra caratteristica che accomuna chi subisce mobbing è la “fuga” dei colleghi di lavoro. Magari all'inizio si mostrano un po' preoccupati per te che difficilmente puoi avere delle alternative, del mutuo che hai ancora da pagare o anche, semplicemente, dispiace che tu vada via perché con te si lavora bene e si trova sempre un accordo quando ci sono i periodi di ferie da “spartire”, mentre la persona che arriverà è un punto interrogativo sotto tutti gli aspetti. Ma dopo che qualche collega ha perso un po' del suo tempo ad ascoltarti, ecco che subentra la fase della “fuga”. I colleghi ti vedono come un appestato e anche farsi vedere in tua compagnia dal capo durante la pausa caffè può essere rischioso. Non mancano, poi, le aziende dove il titolare convoca tutti i dipendenti, eccetto la vittima, per sentenziare che “quella persona va emarginata”. Parole nude. Parole crude che non lasciano spazi ad altre interpretazioni. Parole che tutti devono comprendere. Dopo un discorsetto del genere non meraviglia, allora, che in certi contesti aziendali parta una vera caccia: nel tentativo di conservare il proprio posto di lavoro o di poter beneficiare di un tornaconto personale, ci sono colleghi che sono pronti a raccontare al datore di lavoro episodi che mettono in cattiva luce la vittima. Se prima tutti usavano internet e telefono per fini personali, adesso ci si scandalizza se si “sorprende” la persona - presa di mira dal titolare - mentre al telefono chiede alla moglie se il figlio ha ancora 40 di febbre, oppure si sbraita e si sostiene che ogni scusa è buona per assentarsi dal lavoro se si “sente” che quel collega intende contattare un medico per sapere quando può essere ricevuto per sapere qualcosa in più sulle aspettative di vita del proprio genitore a cui è stato diagnosticato un tumore al polmone. Così succede che, nel giro di poco tempo, i colleghi, più che ad impegnarsi a svolgere il proprio lavoro sono indaffarati ad osservare le “mosse” del collega appestato e c'è un via vai tra la postazione di lavoro e l'ufficio del datore: un andirivieni che al mobbizzato non sfugge. Eppure è molto semplice capire che se oggi tocca a Tizio subire questo martirio, domani, alla luce di questa logica, capiterà a Caio.
Un ragionamento che a chi subisce mobbing appare palese, mentre non lo è per quel viscido collega convinto che il posto di lavoro vada mantenuto stretto con la delazione e il servilismo. (Carlo Silvano)

Commenti

Carlo Silvano ha detto…
Da una persona che frequenta il gruppo Mobbing ITALIA (Face book) ho ricevuto il commento che segue:

Ho letto d'un fiato queste tue riflessioni.
Purtroppo quello che scrivi è tragico e reale.
Il mobbizzato non riesce a capire di essere una vittima subito,proprio "grazie" ai sensi di colpa che si infligge in seguito ai comportamenti dei mobbizzanti.
Quindi vive male PRIMA, per i sensi di colpa, e DOPO quando capisce di essere il capro espiatorio di un capo scorretto e di colleghi servili ed ipocriti. [E.P.]

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